Tradita. Così mi sento questa notte in cui il sonno non ha voglia di rapirmi. Offesa, nel più profondo punto del mio cuore. Come se avessi sorpreso il mio uomo baciare un’altra donna; le mie sorelle preferire una loro amica a me o un genitore rinnegarti.
Lo stesso identico dolore. Quello che ti fa riflettere su quanto un tifoso possa essere così innamorato da rasentare l’idiozia. Ho preso un treno da Milano perché dovevo essere a casa in tempo per la partita. Poggio il trolley in camera e giù, di corsa allo stadio verso l’ennesima Caporetto. La testa trattiene a stento i pensieri. Ma arrivata allo Stadio vedo che i miei pensieri non sono diversi da quelli dei miei vicini: “Ma perché non hanno voglia di giocare?”; “Ed è vero che non ne possono più delle scelte del Mister?”; “E sarà vero che Pizarro non vuole più rientrare in una squadra che ogni volta cambia faccia e modulo?”. Stasera ho capito. E pensa che ti ripensa i miei occhi a cuoricino hanno perso forma già da dopo San Valentino. “Le solite male voci”, mi convinco, ma anche Svetonio, la serva dell’Impero Romano, raccontava chiacchiere su un fondo di verità. Il Capitano è tra i migliori della classe, una classe sotto la sufficienza, dove per emergere ci vuole poco. Un primo tempo che ci illude con un gol bugiardo e ci annienta con l’umiliazione di una tripletta in dodici minuti. “Riise lo deve togliere da due settimane” è Marco che parla, quello che avrebbe dovuto strappare il biglietto sabato sera ma si sa, i tifosi sono degli innamorati non fanno mai ciò che minacciano. Fabietto è apparso a sorpresa, a cinque minuti prima del fischio d’inizio quando la Curva si tingeva di arancio, bianco e rosso e tutto lo stadio ricordava Fabrizio che non c’è più. Il brivido è corso lungo la spina dorsale, aiutato dalla vista di quel telo che si agita a metà campo sotto le note della colonna sonora della Champions. Il secondo tempo vede lottare qualcuno. Il Capitano corre, quanto meno da un calcio d’angolo all’altro, e ce la mette tutta. Menez alla fine accorcia le distanze. La Curva del “Tirate fuori le palle” ha sussultato. Mi domando come abbia potuto. Il mio corpo non ha avuto nessun fremito, la rabbia e la delusione lo avevano anestetizzato. Immobile ho visto mettere la palla al centro campo e ho assistito ad un orrida partita fino al 94’ . La Curva si scolora e vuole che la squadra abbia il coraggio d’inchinarsi ai suoi piedi. Ce l’ha ma non riceverà nessun applauso, solo fischi, tanti, tantissimi e un “andate a lavorare” che rende la voce rauca a chi, a lavorare, ci va davvero tutti i giorni. Escono tristi i nostri vecchi eroi. Nessuno degno d’indossare quella maglia rossa. Lo sanno. Come uno sciame di api colpito da un potente veleno si libera impazzito lontano dal miele, così ciascuno di noi con la sua sciarpa scappa a casa sperando di liberarsi di quella serata. Sul motorino Mirko canta: “Cor core acceso da ’na passione undici atleti Roma chiamò e sotto ar sole der Cuppolone ‘na bella maja e du’ colori je portò”. Canto anche io, spinta dal rispetto per la nostra maglia, quel rispetto che tutti dovrebbero avere.
(da IL Romanista del 18 Febbraio 2010)